Ritorno alla vita: grazie alla donazione degli organi
«Hanno trovato un fegato!» Lisa Schenk non dimenticherà mai l’entusiasmo di sua sorella quando la buona notizia è arrivata nel giardino di casa. L’intera famiglia stava aspettando quel momento, perché al padre, Michael Schenk, serviva un trapianto di fegato. Poi, finalmente, nell’estate del 2002 è arrivata la telefonata. «È stato tutto molto veloce. Poche ore dopo ero già nella sala operatoria dell’Inselspital di Berna», racconta Michael Schenk (61 anni).
Conosce bene gli ospedali: fin da giovane ha dovuto affrontare molti ricoveri. Negli anni 1980 gli hanno diagnosticato una malattia autoimmune e comunicato che avrebbe avuto bisogno di un trapianto di fegato. «Per molto tempo, però, le cose sono andate relativamente bene», ricorda Michael Schenk. Ha studiato medicina, aperto un ambulatorio, si è sposato e ha avuto tre figli.
Alla fine del 2001, però, il suo stato di salute si è aggravato. «Stavamo traslocando e io non ero più in grado di sollevare pesi. Non avevo la forza.» Era giunto il momento. In quanto medico, si era informato a fondo sul trapianto. «Per me era importante. Volevo essere protagonista attivo e contribuire alle decisioni.» Che cosa gli ha dato speranza in quei momenti? «Mia moglie, i bambini, gli amici e anche i pazienti mi hanno sostenuto e aiutato», racconta Michael Schenk. «Per me era chiaro: la fiducia era una condizione necessaria.»
Una decina di giorni dopo il trapianto era di nuovo a casa. «Non sono riuscito a recuperare la funzionalità che avevo prima dell’intervento. Però ho ripreso a lavorare, anche se con orario ridotto, e mi sono potuto godere la famiglia e anche qualche viaggio.» Nel 2015 ha persino intrapreso un viaggio di tre mesi in Indonesia: con uno zaino in più per trasportare le medicine.
«Per me era chiaro: la fiducia era una condizione necessaria», afferma Michael Schenk.
Un’attesa lunga un anno per un secondo fegato
Nell’estate del 2017, la situazione è peggiorata nuovamente: la malattia aveva distrutto anche il nuovo fegato. Sua figlia Lisa, ormai cresciuta, se lo ricorda bene: «Dovevamo sperare che i valori di papà peggiorassero, in modo che venisse inserito di nuovo nella lista per i trapianti. Era strano: sperare che le cose andassero male sembrava assurdo.» La telefonata fatidica è arrivata nell’estate del 2018. Nel cuore della notte, mentre gli Schenk erano in vacanza a Schatzalp. Alle cinque del mattino, un taxi li aspettava per portare Michael all’Inselspital. Il trapianto è andato bene. Però nei mesi successivi Michael ha dovuto affrontare una grave infiammazione dell’intestino. Sono arrivate nuove operazioni. E complicazioni che hanno quasi messo fine alla vita di Michael Schenk. In tutto, tra ospedale e riabilitazione, il ricovero è durato tre mesi. Nonostante la flebo, anche in reparto cercava sempre di camminare per mantenersi attivo. «Ho guardato avanti e fatto un passo dopo l’altro.» La perseveranza è stata premiata: oggi Michael Schenk può di nuovo godersi le sue escursioni in bici.
«Senza il trapianto, papà sarebbe morto vent’anni fa», racconta Lisa Schenk. Per questo collabora con Swisstransplant e partecipa al progetto Organspende Zürich POZH. «Ho conosciuto molte persone che hanno ricevuto un trapianto: trasmettono un’immensa gioia di vivere. Voglio che la gente rifletta sulla possibilità di donare gli organi. Se il cuore di qualcuno a cui vogliamo bene può dare nuova speranza a un’altra persona, forse è possibile dare un senso anche alle tragedie più grandi.»
In un reparto di cure palliative c’è vita, molta vita
La speranza e la paura: nel suo lavoro di tutti i giorni, Sandra Struchen le vede spesso. Questa infermiera di 33 anni lavora nel reparto di cure palliative dell’Inselspital a Berna. Un posto colmo di tristezza? Assolutamente no. «L’allegria e il senso dell’umorismo non ci mancano», spiega. «Forse, il reparto è addirittura più animato di altri.» Ci tiene a sfatare fin da subito un mito: «Molti pensano che cure palliative voglia dire automaticamente morte, ma non è così. Ci sono anche pazienti che affrontano più trattamenti per gestire sintomatologie complesse o stabilizzare una situazione difficile.» C’è spazio anche per instaurare un rapporto più personale. «Sento che qui posso occuparmi delle persone in modo più individuale», spiega l’infermiera.
Sandra Struchen: «Cure palliative non è sinonimo di disperazione. Anche da noi ci sono speranza e senso dell’umorismo.»
Il reparto si occupa solo di adulti e dei loro familiari. Circa tre quarti di loro hanno un cancro. Poi ci sono le persone con malattie gravi che riducono la loro aspettativa di vita. Alcune sono indipendenti, altre hanno bisogno di aiuto per lavarsi, vestirsi o muoversi. «Spesso l’obiettivo è la gestione di sintomi come il dolore o la nausea. O la ricerca di soluzioni che consentano alla persona di trovare il supporto necessario per tornare a vivere in casa.» Per questo, il team di lavoro comprende specialità diverse. Oltre a medici e infermieri, ci sono anche fisioterapisti, nutrizionisti, specialisti in musicoterapia, operatori religiosi, psiconcologi e assistenti sociali.
La speranza non vuol dire «tutto o niente»
Anche in un reparto di cure palliative, la speranza fa parte della vita, spiega Sandra Struchen. «Spesso, la speranza non vuol dire ‹tutto o niente›. Vediamo persone che sperano in un miracolo. Altre sperano semplicemente di morire serene. Quasi tutti sperano di riuscire a contenere i loro sintomi e godersi la vita che hanno davanti, ad esempio perché aspettano la nascita di un nipotino.» Poi c’è la speranza di lasciare in eredità al mondo qualcosa di significativo, che rimanga nella memoria. Sandra Struchen racconta di giovani genitori che grazie all’associazione Herzensbilder preparano foto, file audio e lettere per i propri figli. «Gli lasciano qualcosa di importante, che nonostante il dolore dimostrerà quanto li hanno amati e darà loro una sensazione di protezione e appartenenza.»
Quando Sandra Struchen finisce il proprio turno all’ospedale, si cambia e chiude la porta dietro di sé. È un modo per mantenere un certo distacco ed equilibrio. «Per otto ore e mezza do tutta me stessa, poi basta», spiega. «Molti familiari, invece, restano con i loro cari 24 ore su 24. Ammiro molto questa capacità.»
Dove trova l’energia e la speranza per fare un lavoro così difficile? «Questo è un posto dove si impara molto», ci dice. «Tutti i giorni, il lavoro mi ricorda che le persone non devono per forza essere ostaggio del dolore. Vedo come a poco a poco accettano che le possibilità sono limitate. Ma, nonostante una malattia grave, con una terapia adeguata la vita vale la pena di essere vissuta. Anche prepararsi con serenità alla morte è possibile. Sono insegnamenti importanti, che mi danno la forza di andare avanti.»
La consulenza familiare per conservare la speranza
«C’è ancora speranza per il nostro rapporto?» Quando le coppie arrivano con questa domanda, David Kuratle non può applicare una ricetta standard. Il parroco della comunità di Meikirch, nel Canton Berna, lavora anche come consulente familiare e di coppia. «Il fatto che una persona esterna riconosca che alcune situazioni sono difficili, è già un primo passo. Durante il percorso di consulenza, molte coppie capiscono che, in fondo, insieme non stanno poi così male. E d’un tratto ricominciano a parlarsi.»
Il suo compito è aiutare le persone a trovare la speranza e darle voce, spiega David Kuratle. Per farlo, inizia con delle domande. In passato, ci sono stati momenti buoni? Su che cosa si può fare leva per recuperare la relazione? Che cosa bisogna accettare? Che cosa può cambiare? «Invito anche le persone a migliorare il rapporto che hanno con se stesse, a riconoscere ed esprimere i propri bisogni.» Spesso, infatti, nella vita di tutti i giorni non trovano lo spazio per farlo. «Un momento particolarmente bello è quello in cui una coppia scopre di avere ancora una chance. Vedere come riescono a dare valore agli aspetti positivi che ancora ci sono.
Nel migliore dei casi, può essere un nuovo inizio.» David Kuratle cita l’esempio di un top manager, che ha scelto di lasciare aperta la porta del suo studio e dedicare più tempo ai figli. Il rapporto con la moglie, che a lungo sembrava destinato a finire in una separazione, è migliorato moltissimo. David Kuratle legge con soddisfazione l’SMS di un’altra coppia: lo ringrazia per averli aiutati a ritrovare il piacere di stare insieme ed essere disponibili l’uno per l’altro.
«Il mio compito è dare voce alla speranza», David Kuratle.
Alla ricerca della pace interiore
Ovviamente, i rapporti di coppia non sono l’unico ambito per il quale le persone chiedono aiuto. «Spesso accolgo uomini e donne che cercano qualcuno con cui parlare della solitudine, della malattia o della morte. Vogliono esprimersi con franchezza e hanno bisogno di una persona capace di ascoltare e condividere con loro il peso di una situazione difficile.» In quanto parroco, David Kuratle può includerli nelle sue preghiere e trovare uno spazio anche per quello che le persone non riescono a esprimere.
«Osservo il desiderio di riconciliazione, soprattutto quando la fine è vicina.» Racconta di due uomini che vivevano nello stesso villaggio: erano stati molto amici da bambini, ma poi avevano litigato fino al punto di diventare nemici per la vita. Quando uno dei due si è scoperto in fin di vita, ha chiesto al parroco di contattare l’altro. L’amico d’infanzia è subito corso in ospedale, dove senza troppe parole i due si sono riconciliati.
«Che si tratti del mio lavoro di consulente per le coppie e le famiglie o della vita di parrocchia, mi sorprende sempre il modo in cui le persone riescono ad affrontare così tante difficoltà», spiega David Kuratle. «Ammiro il fatto che mantengono la fiducia, adeguano le proprie priorità e affrontano i cambiamenti. Spesso non si chiedono: ‹Perché è successo proprio a me?› Invece, cercano di vivere le difficoltà in modo da trarne un insegnamento utile. Escono dal ruolo di vittima e diventano protagonisti della propria esistenza. Tutti questi incontri alimentano la mia speranza e la mia fede nel bene.»